
Capotondi alla sua opera prima, ma conscio del mezzo cinematografico in quanto regista di pubblicità e video, cerca di scardinare i meccanismi narrativi tentando di spiazzare lo spettatore mediante una narrazione fatta di ambiguità e sottintesi che creano aspettative e tensioni, ma rischia molto, forse troppo nel voler scrivere e realizzare qualcosa che non sembri cronologicamente e logicamente piano, lineare.
Capotondi lavora di sottrazione nella rappresentazione delle psicologie, lasciando che sia la recitazione e alcuni dialoghi a far affiorare con la giusta sintesi narrativa i vissuti e i sentimenti dei suoi protagonisti, in una sorta di noir psicologico che nella prima parte rischia di aprirsi a troppe possibili soluzioni e possibilità, suscitando una tensione data dalla delusione, questa volta dello spettatore, di essere finalmente di fronte ad un film capace di non cadere nei soliti errori di sceneggiatura, ma che così non sembra con il suo procedere pseudocriptico.
Compete alla parte finale del racconto dipanare la matassa e confermare alcune presunzioni che si erano affacciate nella mente dello spettatore più smaliziato, disvelando i disinganni di cui Guido si faceva giustamente portatore e dimostrando come Timi sia attore completo e sempre più interessante e la Rappoport bellezza non banale, capace di sfumature e accenni che rischiano di essere schiacciati da una sceneggiatura troppo intertestuale.
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