Pare non esserci fine al masochismo cinematografico del sottoscritto e della propria compagna di visioni con cui il qui presente si è ritrovato a vedere ed ora a recensire nuovamente un film, che già dalle premesse non prometteva nulla di buono. Per il futuro non so quali altre visioni dovrò affrontare per conto dei miei committenti, che ogni tanto mi rifilano richieste di recensioni di film, che in tutta coscienza eviterei accuratamente come la peste come nel caso di Wolfman, ma quando il dovere chiama il sottoscritto risponde e spesso deve sporcarsi le mani con opere che dimostrano come anche gli americani ultimamente non navighino in acque felici, quanto a scrittura cinematografica.
Perché bisogna dirlo, il film di Corbjin difetta grandemente per la sceneggiatura di Rowan Joffe che trasuda di "già visto e sentito" senza riuscire a spiccare neppure per nostalgia o simpatia verso personaggi solitari e pieni di mistero come quello interpretato da George Clooney.
La figura del killer solitario che vuole porre fine al proprio lavoro ha il suo indubbio fascino letterario, ma il film tenta di giocare troppo sulla fascinazione ambigua del personaggio e della storia, sulla costruzione progressiva di un mosaico costellato da personaggi arcani, che insinuano dubbi e presunte tensioni, false piste che si perdono inutilmente e s'inseriscono nella vicenda come corollari del percorso umano e riflessivo di un uomo, che conosce bene la morte e che si ritrova addirittura a fare i conti con un prete con qualche peccato di gioventù da espiare e una prostituta in vena di redenzione per amore dell'Americano. Che poi mi si deve spiegare perché Clooney pur essendo l'Americano per tutti quelli del paese, parli e gli parlino in un perfetto italiano lo devo ancora capire, ma questa è la magia del cinema e del dono delle lingue di cui siamo tutti dotati sullo schermo di celluloide, mi si dirà.
Insomma, The American è un bel passo falso per un regista/fotografo come Corbjin, noto per essere autore di videoclip musicali e anche del film sulla vita e morte di Ian Curtis dei Joy Division, raccontata con un bianco e nero pregevole e uno stile che in questo nuovo lavoro appare sprecato, sciupato da una vicenda con aspetti retorici e mal riusciti, in cui aleggia l'imbarazzo narrativo sempre più montante con il passare del tempo e l'avanzare della storia.
L'avventura italiana dell'accoppiata Corbjin/Clooney costituisce un passo falso per entrambi e dimostra come il cinema americano, quando si ritrova a fare i conti con il Bel Paese, finisca con il generare opere che difficilmente risultano plausibili o riuscite, nonostante scenari naturali pregevoli, a causa d'inserti attoriali che non sempre risultano azzeccati oppure sprecati, come quello di Paolo Bonacelli e Filippo Timi. Altrettanto non si può dire per Violante Placido, che si aggiunge alla schiera di attrici italiane impiegate come figure di contorno dei divi d'oltreoceano, per ridursi ai soliti ruoli di comprimarie cui il cinema pare doverle relegare, con esiti non sempre all'altezza delle aspettative, vuoi per una concezione maschilista di fondo del cinema e vuoi per le non brillanti capacità recitative di alcune di loro.
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