Il
secondo film della carriera di Carlo Verdone dimostra come il regista preferisca
sfruttare una formula già rodata, frutto della sua esperienza televisiva e
cabarettistica, che gli consente di mettere in scena personaggi grotteschi,
quale specchio della società del tempo.
Il
regista opta anche questa volta per una storia a più voci per raccontare a suo
modo gli italiani e le loro idiosincrasie, mediante il pretesto elettorale quale
momento emblematico per tratteggiare la sua critica “sociale”.
Tre sono
le figure protagoniste del film interpretate dallo stesso Verdone, quali
incarnazioni di macchiette umane con cui abbozzare aspetti risibili
dell’italiano medio.
Sicuramente
il personaggio di Pasquale Amitrano è quello che meglio rappresenta quello
stereotipo, allora ancora presente nell’immaginario comune, dell’emigrante
italiano che mantiene consolidate radici con la propria terra d’origine,
attraverso immagini feticcio, spesso riferibili all’ambito calcistico, come
dimostra la foto conservata in camera del calciatore juventino Causio.
Pasquale
è inoltre il personaggio che idealmente si contrappone a quello di Furio, non
solo geograficamente ma anche linguisticamente.
Mentre il
secondo è portatore di una dialettica nevrotica capace di minare la serenità
mentale della propria consorte e di chi lo circonda, Pasquale invece è completamente
silente, per non dire apparentemente muto, che grazie alla propria mimica e
alla sua stereotipizzazione parossistica, data da una serie di evidenti dettagli
estetici, non sembra necessitare di parole o manifestazioni vocali per
esprimere il suo disagio e il senso di straniamento di cui si fa portatore nel
suo viaggio verso Matera per compiere il suo dovere di elettore.
Qui
Verdone dimostra di saper tratteggiare una figura comica, degna di una gag alla
Tatì, da cui traspare l’innegabile incapacità del personaggio a rapportarsi non
solo, sin dalle prime inquadrature, con gli oggetti domestici e più quotidiani,
ma anche nei confronti di un ambiente sociale più ampio da cui si sente
respinto e doppiamente estraneo e straniato.
Mimmo,
infine, è il personaggio meno nuovo da un punto di vista cinematografico per
Verdone, poiché decalcomania del personaggio Leo di Un sacco bello, ma che il regista recupera per incarnare ancora una
volta l’immagine dell’italiano “mammone”, ritratto come individuo psicologicamente
immaturo e incapace di rapportarsi appieno con la propria sessualità.
Verdone
conduce così i suoi protagonisti lungo un viaggio per l’Italia, contrappuntato
dalla marcetta dissacrante e dissacratoria dell’inno di Mameli realizzata dal
compositore Ennio Morricone, mettendo in scena le avventure e disavventure dei suoi
protagonisti che offrono spunti non solo comici, ma anche intimisti denotanti
potenzialità espressive, che in futuro il nostro regista saprà sfruttare
adeguatamente, sino al triplice finale.
Qui
Verdone non esita a disseminare considerazioni amare, con qualche rischio di banalità
e qualunquismo, ma che evidenziano comunque distorsioni sociali non così
lontane dal vero e che trovano il loro acme espressivo nella frenesia verbale
del personaggio di Pasquale.
Sfogo orale,
quello dell’unico personaggio sino a quel momento silente, che nella sua
incomprensibilità ricostruttiva delle vicissitudini di viaggio, costituisce una
felice soluzione comica e al tempo stesso critica non solo all’esercizio del
diritto di voto espresso con notevole impegno intellettivo, ma anche nei
confronti della società e del paese in cui dovrebbe riconoscersi, ma da cui si
sente ormai distante ed inevitabilmente escluso.
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