E' interessante osservare come un regista dinamico come Tony Scott sia costretto a contenere la propria regia frenetica in un ambito decisamente ristretto e claustrofobico, in cui la staticità dell'azione viene compensata dalla tensione narrativa dell'attesa e della trattativa, in cui le vite degli ostaggi vengono subito messe in gioco con semplice facilità dal villain Travolta, memore della sua interpretazione in Nome in codice Broken Arrow, da cui si distingue e distanzia utilizzando un'ironia rancorosa che costringe i suoi interlocutori a dover mettere a nudo i propri difetti e difficoltà, quasi una sorta di coscienza o specchio dell'anima che porta a riemergere le ombre di ognuno di loro.
Quella incarnata da Washington è sicuramente la figura più rassicurante, quella apparentemente più proba e retta, ma anch'egli nasconde un torto, una colpa da espiare. Eppure Garber appare troppo sensibile e sincero da poter veramente risultare reo della colpa che gli viene attribuita, tant'è che quasi non gli si crede al momento della propria pubblica confessione e intorno a lui si crea una sorta di clima di condivisione e comprensione, dato da quel perdono che la cultura americana pare riconoscere sempre ai suoi eroi, a differenza del lassismo e del perdono facile della nostra cultura, spesso virante in una giustificazione semplicistica dei torti e dei mali quotidiani.
Il film di Scott è decisamente intriso di patriottismo, a volte troppo, tanto da strafare in alcuni punti, lasciando troppo spazio ad una facile retorica e ad un senso di già visto decisamente irritante.
Più interessante è il senso di disagio sotteso nel timore ancora vigile del terrorismo nella città di New York e nei suoi abitanti e quale scelta migliore se non quella di un luogo claustrofobico come quello della metropolitana? Perché seppur sia evidente la natura del sequestro messo in atto da Ryder, i dubbi sulle vere ragioni di tale folle atto, per chi rimane in superficie anch'esso chiuso in uno spazio delimitato, sono forti e costanti, sino alla conclusione in cui tutto pare riequilibrarsi secondo lo spirito patriottico nazionale.
Nonostante l'enfasi strisciante, alcune scelte facili di montaggio, ormai eccessivamente manierato come certa fotografia sgranata, e alcune scene d'azione che Scott doveva per forza infilarci per sfogare la propria necessaria urgenza adrenalinica, il film ci regala un personaggio interessante e riuscito qual'è quello del non così impeccabile sindaco, interpretato da un sempre valido Gandolfini che incarna un immagine di politico che involontariamente richiama la nostra attualità nostrana e che svolge un ruolo non di secondo piano, insinuandosi nel discorso sulla moralità e correttezza degli individui e della capacità di prendersi le proprie responsabilità, nonché sulla fiducia, seppur a volte solo di facciata, nella propria città e nello spirito di corpo.
Gandolfini, infatti, risulta più vero attraverso la propria ipocrisia politica perché disvela una sincera umanità, che non lo rende di certo migliore degli altri, ma sicuramente più significativo come personaggio, senza nulla togliere alla nemesi-Travolta, che nonostante un certo istrionismo è meno irritante dell'apparente irreprensibilità di Washington o di Camonetti (John Turturro), ambiguità che l'attore afroamericano aveva saputo esprimere con maggiore incisività nel costantemente mutevole Inside Man.
Quella incarnata da Washington è sicuramente la figura più rassicurante, quella apparentemente più proba e retta, ma anch'egli nasconde un torto, una colpa da espiare. Eppure Garber appare troppo sensibile e sincero da poter veramente risultare reo della colpa che gli viene attribuita, tant'è che quasi non gli si crede al momento della propria pubblica confessione e intorno a lui si crea una sorta di clima di condivisione e comprensione, dato da quel perdono che la cultura americana pare riconoscere sempre ai suoi eroi, a differenza del lassismo e del perdono facile della nostra cultura, spesso virante in una giustificazione semplicistica dei torti e dei mali quotidiani.
Il film di Scott è decisamente intriso di patriottismo, a volte troppo, tanto da strafare in alcuni punti, lasciando troppo spazio ad una facile retorica e ad un senso di già visto decisamente irritante.
Più interessante è il senso di disagio sotteso nel timore ancora vigile del terrorismo nella città di New York e nei suoi abitanti e quale scelta migliore se non quella di un luogo claustrofobico come quello della metropolitana? Perché seppur sia evidente la natura del sequestro messo in atto da Ryder, i dubbi sulle vere ragioni di tale folle atto, per chi rimane in superficie anch'esso chiuso in uno spazio delimitato, sono forti e costanti, sino alla conclusione in cui tutto pare riequilibrarsi secondo lo spirito patriottico nazionale.
Nonostante l'enfasi strisciante, alcune scelte facili di montaggio, ormai eccessivamente manierato come certa fotografia sgranata, e alcune scene d'azione che Scott doveva per forza infilarci per sfogare la propria necessaria urgenza adrenalinica, il film ci regala un personaggio interessante e riuscito qual'è quello del non così impeccabile sindaco, interpretato da un sempre valido Gandolfini che incarna un immagine di politico che involontariamente richiama la nostra attualità nostrana e che svolge un ruolo non di secondo piano, insinuandosi nel discorso sulla moralità e correttezza degli individui e della capacità di prendersi le proprie responsabilità, nonché sulla fiducia, seppur a volte solo di facciata, nella propria città e nello spirito di corpo.
Gandolfini, infatti, risulta più vero attraverso la propria ipocrisia politica perché disvela una sincera umanità, che non lo rende di certo migliore degli altri, ma sicuramente più significativo come personaggio, senza nulla togliere alla nemesi-Travolta, che nonostante un certo istrionismo è meno irritante dell'apparente irreprensibilità di Washington o di Camonetti (John Turturro), ambiguità che l'attore afroamericano aveva saputo esprimere con maggiore incisività nel costantemente mutevole Inside Man.
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