Dei bambini non si sa niente e mai si saprà perché contrariamente a quello che si può pensare Haneke non ci rivela chi sia l'autore o gli autori delle violenze perpetrate nel villaggio ad alcuni suoi abitanti, né si dovrebbe semplicisticamente ed ideologicamente vedere in questo film i prodromi del Nazismo, per quanto la voce fuori campo porti ad una lettura di questo tipo.
Al regista austriaco ancora una volta preme raccontare e rappresentare mediante il fuori campo ciò che la violenza comporta e il suo esserci nella società, piccola o grande che sia, trasmettendo un senso di raggelante oppressione umana e sociale che si disvela in alcuni momenti di apertura, di disvelamento della rabbia, della malignità insita nelle figure degli adulti e dell'odio e della grettezza di cui si fanno portatori, sino alla rinnegazione di una possibile verità finale.
Vi è un'inquietante freddezza negli sguardi e nei gesti dei bambini del villaggio, testimoni, vittime e carnefici di una violenza sottesa, sempre negata esplicitamente allo spettatore, ma suggerita con abile senso dell'attesa e della sospensione del giudizio, che Haneke opera con lucida programmazione ed è questo forse uno degli aspetti che vengono recriminati all'autore austriaco.
Eppure non si può negare ad Haneke di aver realizzato un'opera che non è solo formalmente perfetta, raggelata nel suo bianco e nero devitalizzante ogni speranza o gioia, anche quando in esso vi si inseriscono figure positive come quella del maestro e della bambinaia, che a loro modo si pongono come contraltari di vera purezza e non bramosia di fronte a tanta animalità, insita forse nel calore della terra e della natura della campagna come avrebbe immaginato Pavese, seppur con un'idea poetica ben diversa dall'interesse antropologico e a tratti entomologico di Haneke.
Il film del regista austriaco si allontana dalle sue ultime opere involute e autoriflessive, in cui lo sguardo rivolto alla nostra capacità di apportare violenza e prevaricazione sugli altri sembrava essersi rinchiuso in se stesso e non trovare più una nuova strada d'uscita. Ora invece il rigore vince su tutto restituendoci un discorso formalmente e sostanzialmente impeccabile in cui i dubbi, le ansie e le riflessioni non smettono di insinuarsi nelle nostre menti, suscitando un desiderio di conoscenza e verità che rimarrà inappagato come il nostro sguardo, che è costretto ad intuire, a cercare di vedere ciò che Haneke volutamente ci nega, consapevole del nostro desiderio morboso di conoscenza anche del male dietro ogni porta chiusa.
Al regista austriaco ancora una volta preme raccontare e rappresentare mediante il fuori campo ciò che la violenza comporta e il suo esserci nella società, piccola o grande che sia, trasmettendo un senso di raggelante oppressione umana e sociale che si disvela in alcuni momenti di apertura, di disvelamento della rabbia, della malignità insita nelle figure degli adulti e dell'odio e della grettezza di cui si fanno portatori, sino alla rinnegazione di una possibile verità finale.
Vi è un'inquietante freddezza negli sguardi e nei gesti dei bambini del villaggio, testimoni, vittime e carnefici di una violenza sottesa, sempre negata esplicitamente allo spettatore, ma suggerita con abile senso dell'attesa e della sospensione del giudizio, che Haneke opera con lucida programmazione ed è questo forse uno degli aspetti che vengono recriminati all'autore austriaco.
Eppure non si può negare ad Haneke di aver realizzato un'opera che non è solo formalmente perfetta, raggelata nel suo bianco e nero devitalizzante ogni speranza o gioia, anche quando in esso vi si inseriscono figure positive come quella del maestro e della bambinaia, che a loro modo si pongono come contraltari di vera purezza e non bramosia di fronte a tanta animalità, insita forse nel calore della terra e della natura della campagna come avrebbe immaginato Pavese, seppur con un'idea poetica ben diversa dall'interesse antropologico e a tratti entomologico di Haneke.
Il film del regista austriaco si allontana dalle sue ultime opere involute e autoriflessive, in cui lo sguardo rivolto alla nostra capacità di apportare violenza e prevaricazione sugli altri sembrava essersi rinchiuso in se stesso e non trovare più una nuova strada d'uscita. Ora invece il rigore vince su tutto restituendoci un discorso formalmente e sostanzialmente impeccabile in cui i dubbi, le ansie e le riflessioni non smettono di insinuarsi nelle nostre menti, suscitando un desiderio di conoscenza e verità che rimarrà inappagato come il nostro sguardo, che è costretto ad intuire, a cercare di vedere ciò che Haneke volutamente ci nega, consapevole del nostro desiderio morboso di conoscenza anche del male dietro ogni porta chiusa.
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