Se Spike Lee era stato ricoperto di onori e apprezzamenti per il solo fatto di aver realizzato il suo film Miracolo a Sant'Anna che toccava indirettamente la strage di Marzabotto (anche se in L'uomo che verrà viene richiamata quella di Monte Sole, ma le affinità drammatiche sono le stesse) con strascichi polemici inevitabili e conseguenti nel momento in cui si offre una lettura discutibile e discussa di vicende come questa -, perché purtroppo la nostra storia comporta ancora oggi difficoltà di accettazione e superamento di certe scelte o eventi così significativi e difficili da elaborare - il film di Diritti per fortuna non è ancora stato abbracciato dalla retorica ufficiale e neppure da letture o considerazioni revisioniste.
Si deve, anzi, dare merito al regista de Il vento fa il suo giro, piccolo caso di film ambientato in una comunità di lingua occitana, di saper cogliere attraverso il suo sguardo i tempi e le sensazioni delle piccole comunità rurali dell'appennino emiliano, grazie anche ad una scelta precisa di adottare il dialetto come segno fonetico di riconoscimento e di veridicità, che bilancia quello che è lo sguardo innocente della protagonista nei confronti della guerra e dell'occupazione tedesca.
Sono gli occhi di Martina (Greta Zuccheri Montanari), infatti, a percepire e scandire i ritmi di una società semplice, ma senza essere vista o rappresentata in maniera pittoresca o edulcorata, lasciando ai rumori della collina e del bosco il compito di accompagnare nel suo percorso silente la protagonista e il contesto che la circonda.
Quello che traspare è la veridicità, seppur con vene poetiche, perché a percepirla sono gli occhi di un infante - in fondo i bambini ci guardano come ci ricorda De Sica -, cosicché tutto viene sublimato attraverso uno sguardo che non professa parole, se non quelle scritte su un quaderno, quale testimone a volte pericoloso degli eventi che la circondano, in conseguenza di un trauma che ha coinvolto Martina e che la rende oggetto di scherno e superstizione appena accennata da parte degli altri bambini del paese.
Occhi che percepiscono e comprendono le amarezze della guerra, delle morti conseguenti ad essa, senza giudizi morali da parte della stessa e del regista, ma non per questo di volontà di appiattimento o parificazione retorica delle colpe o necessità di ciascuna parte contrapposta.
In questo modo Diritti prepara il terreno per la strage a venire non fermandosi, come semplicisticamente ci si sarebbe potuto attendere, alla rappresentazione drammatica o spettacolare di un simile evento, riuscendo così a creare una condivisione di sguardo rispetto a tale tragedia senza per questo perdere tensione drammatica e andando anche oltre ad essa, raccontandocene gli strascichi e le conseguenze successive, che condurranno la protagonista verso un destino incerto, solingo, in cui il taglio di capelli non solo rappresenta una necessità di mascheramento e di purificazione, ma anche una trasformazione della propria identità da femminile a maschile, sino al recupero di quel linguaggio trattenuto, negato, che non si appalesa quale reazione al trauma della morte, ma quale necessità di sopravvivenza e di conforto per chi è sopravvissuto e dovrà farsi carico di una nuova vita innocente da lei stessa salvata, cui regalare una speranza che le icone religiose sotterrate simbolicamente da uno dei contadini scampati alla strage non sono riuscite a garantire, restituendo così alla forza dell'individuo il compito di vivere e ricordare per il futuro ed il presente.
Si deve, anzi, dare merito al regista de Il vento fa il suo giro, piccolo caso di film ambientato in una comunità di lingua occitana, di saper cogliere attraverso il suo sguardo i tempi e le sensazioni delle piccole comunità rurali dell'appennino emiliano, grazie anche ad una scelta precisa di adottare il dialetto come segno fonetico di riconoscimento e di veridicità, che bilancia quello che è lo sguardo innocente della protagonista nei confronti della guerra e dell'occupazione tedesca.
Sono gli occhi di Martina (Greta Zuccheri Montanari), infatti, a percepire e scandire i ritmi di una società semplice, ma senza essere vista o rappresentata in maniera pittoresca o edulcorata, lasciando ai rumori della collina e del bosco il compito di accompagnare nel suo percorso silente la protagonista e il contesto che la circonda.
Quello che traspare è la veridicità, seppur con vene poetiche, perché a percepirla sono gli occhi di un infante - in fondo i bambini ci guardano come ci ricorda De Sica -, cosicché tutto viene sublimato attraverso uno sguardo che non professa parole, se non quelle scritte su un quaderno, quale testimone a volte pericoloso degli eventi che la circondano, in conseguenza di un trauma che ha coinvolto Martina e che la rende oggetto di scherno e superstizione appena accennata da parte degli altri bambini del paese.
Occhi che percepiscono e comprendono le amarezze della guerra, delle morti conseguenti ad essa, senza giudizi morali da parte della stessa e del regista, ma non per questo di volontà di appiattimento o parificazione retorica delle colpe o necessità di ciascuna parte contrapposta.
In questo modo Diritti prepara il terreno per la strage a venire non fermandosi, come semplicisticamente ci si sarebbe potuto attendere, alla rappresentazione drammatica o spettacolare di un simile evento, riuscendo così a creare una condivisione di sguardo rispetto a tale tragedia senza per questo perdere tensione drammatica e andando anche oltre ad essa, raccontandocene gli strascichi e le conseguenze successive, che condurranno la protagonista verso un destino incerto, solingo, in cui il taglio di capelli non solo rappresenta una necessità di mascheramento e di purificazione, ma anche una trasformazione della propria identità da femminile a maschile, sino al recupero di quel linguaggio trattenuto, negato, che non si appalesa quale reazione al trauma della morte, ma quale necessità di sopravvivenza e di conforto per chi è sopravvissuto e dovrà farsi carico di una nuova vita innocente da lei stessa salvata, cui regalare una speranza che le icone religiose sotterrate simbolicamente da uno dei contadini scampati alla strage non sono riuscite a garantire, restituendo così alla forza dell'individuo il compito di vivere e ricordare per il futuro ed il presente.
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