
La verità è che come ha detto Lee stesso, il nostro paese deve ancora fare i conti col proprio passato e che la ferita è ancora inevitabilmente aperta.
Ciò che, a parere di chi scrive, non convince nel film di Lee è un certo appiattimento televisivo del racconto e una sua derivazione che inevitabilmente fa pensare a La vita è bella, causa la presenza di un bambino con accento toscano che ci richiama alla memoria, con la propria innocenza, il film di Benigni e alcuni imbarazzanti raccordi narrativi che si riflettono in un finale a dir poco imbarazzante, in cui sembra di essere finiti in una puntata di Fantasilandia.
Ebbene, il film del regista afroamericano inizia con un certo rigore e le atmosfere sembrano ricordare la capacità di creare una certa tensione e mistero visti nel precedente Inside Man, per poi ripercorrere temi a lui cari, quali la discriminazione razziale e il ruolo rivestito dai soldati di colore all'interno dell'esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale, peccato debba poi fare i conti con la realtà e la storia locale, tanto da doversi scontrare con vicende che nella loro rappresentazione ricadono inevitabilmente nel piatto linguaggio televisivo della fiction, con tutte le conseguenze negative che essa comporta e inevitabilmente si nota lo zampino di Rai Fiction.
Un'occasione stilisticamente mancata per il regista, non per le tematiche affrontate, ma per lo stile utilizzato, piegatosi ad un colore e ad una piattezza che non immaginavamo di dover riscontrare in un autore, che negli ultimi anni, ci aveva saputo raccontare con acuta intelligenza l'America post 11 settembre.
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