08/01/11

Hereafter

Clint Eastwood è un regista classico, la sua regia è caratterizzata da quello che si potrebbe definire il montaggio invisibile tipico di un cinema americano dei primordi, a differenza di quello successivo in cui gli stacchi e i virtuosismi erano e sono diventati una cifra stilistica spesso impiegata in maniera inadeguata, volta a coprire vuoti di senso e di significato di cui il cinema spesso si ritrova a soffrire, tant'è che il regista americano è diventato un campione inattaccabile per la critica mondiale, eppure questa volta non sono rimasto impressionato come in altri contesti affrontati dal nostro autore.
Sicuramente il tema di partenza e il modo di affrontarlo mi lasciavano perplesso ancor prima di affrontarne la visione, perché la morte è uno dei grandi tabù cinematografici, non perché m'infastidisca parlarne o vederla rappresentata per quanto possibile sullo schermo, ma perché non è facile affrontarla con argomenti che non rischino di prendere una piega più o meno di parte o banale.
La figura del sensitivo era sicuramente quella che più mi suscitava perplessità, anche se Matt Damon appare credibile nella sua sofferenza, nella sua dannazione eterna di visioni di morte che Eastwood non accentua come qualunque altro regista avrebbe fatto in maniera scontata, esaltando il lato soprannaturale delle sue percezioni extrasensoriali.
Il regista alterna tre vicende che toccano aspetti della nostra realtà significativi e determinativi, alternandole tra loro per poi dover trovare in ogni caso un punto di raccordo per le stesse e un afflato di speranza dopo tanta sofferenza, che non viene accentuata e caricata emotivamente in maniera eccessiva, perché Eastwood conosce il senso della misura, ma forse sono le storie in se stesse a non riuscire più di tanto ad andare oltre quella domanda che ad un certo punto è balzata nella testa di un mio amico: ma adesso Eastwood ci porterà a qualcosa? Ecco, è questa la sensazione che credo emerga dopo un certo lasso di tempo e che evidenzia l'aspetto teorico del regista, più o meno condivisibile, che crede in una possibilità oltre la vita, ma questo punto nodale che urge come domanda per la giornalista francese scampata allo tsunami, sembra una presa di posizione che non trova un vero confronto dialettico neppure con il suo compagno e che dimostra un'unilaterale opinione del regista, che giustamente dopo aver scelto di morire cinematograficamente come attore è come se si chiedesse come possa essere la vita a questo punto della sua tappa esistenziale e anche forse cinematografica.
Il tema della morte pare ricorrere inevitabilmente in autori contemporanei come Allen e Eastwood, seppur affrontata con toni diversi, come è nelle corde dei due registi, ma questa volta il secondo non ha convinto il sottoscritto come in altre sue precedenti opere e lo stesso non si pone fuori dal coro per vezzo o per essere controcorrente con la critica unanime ed osannante, ma semplicemente perché come spettatore e amante del regista, questa volta non si è ritrovato nel modo di affrontare un tema che nonostante l'età lo riguarda da vicino come tutti noi, più o meno coscientemente.

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