12/03/13

Bianco Rosso e Verdone

Il secondo film della carriera di Carlo Verdone dimostra come il regista preferisca sfruttare una formula già rodata, frutto della sua esperienza televisiva e cabarettistica, che gli consente di mettere in scena personaggi grotteschi, quale specchio della società del tempo.
Il regista opta anche questa volta per una storia a più voci per raccontare a suo modo gli italiani e le loro idiosincrasie, mediante il pretesto elettorale quale momento emblematico per tratteggiare la sua critica “sociale”.
Tre sono le figure protagoniste del film interpretate dallo stesso Verdone, quali incarnazioni di macchiette umane con cui abbozzare aspetti risibili dell’italiano medio. 
Sicuramente il personaggio di Pasquale Amitrano è quello che meglio rappresenta quello stereotipo, allora ancora presente nell’immaginario comune, dell’emigrante italiano che mantiene consolidate radici con la propria terra d’origine, attraverso immagini feticcio, spesso riferibili all’ambito calcistico, come dimostra la foto conservata in camera del calciatore juventino Causio. 
Pasquale è inoltre il personaggio che idealmente si contrappone a quello di Furio, non solo geograficamente ma anche linguisticamente. 
Mentre il secondo è portatore di una dialettica nevrotica capace di minare la serenità mentale della propria consorte e di chi lo circonda, Pasquale invece è completamente silente, per non dire apparentemente muto, che grazie alla propria mimica e alla sua stereotipizzazione parossistica, data da una serie di evidenti dettagli estetici, non sembra necessitare di parole o manifestazioni vocali per esprimere il suo disagio e il senso di straniamento di cui si fa portatore nel suo viaggio verso Matera per compiere il suo dovere di elettore. 
Qui Verdone dimostra di saper tratteggiare una figura comica, degna di una gag alla Tatì, da cui traspare l’innegabile incapacità del personaggio a rapportarsi non solo, sin dalle prime inquadrature, con gli oggetti domestici e più quotidiani, ma anche nei confronti di un ambiente sociale più ampio da cui si sente respinto e doppiamente estraneo e straniato. 
Mimmo, infine, è il personaggio meno nuovo da un punto di vista cinematografico per Verdone, poiché decalcomania del personaggio Leo di Un sacco bello, ma che il regista recupera per incarnare ancora una volta l’immagine dell’italiano “mammone”, ritratto come individuo psicologicamente immaturo e incapace di rapportarsi appieno con la propria sessualità. 
Verdone conduce così i suoi protagonisti lungo un viaggio per l’Italia, contrappuntato dalla marcetta dissacrante e dissacratoria dell’inno di Mameli realizzata dal compositore Ennio Morricone, mettendo in scena le avventure e disavventure dei suoi protagonisti che offrono spunti non solo comici, ma anche intimisti denotanti potenzialità espressive, che in futuro il nostro regista saprà sfruttare adeguatamente, sino al triplice finale.
Qui Verdone non esita a disseminare considerazioni amare, con qualche rischio di banalità e qualunquismo, ma che evidenziano comunque distorsioni sociali non così lontane dal vero e che trovano il loro acme espressivo nella frenesia verbale del personaggio di Pasquale. 
Sfogo orale, quello dell’unico personaggio sino a quel momento silente, che nella sua incomprensibilità ricostruttiva delle vicissitudini di viaggio, costituisce una felice soluzione comica e al tempo stesso critica non solo all’esercizio del diritto di voto espresso con notevole impegno intellettivo, ma anche nei confronti della società e del paese in cui dovrebbe riconoscersi, ma da cui si sente ormai distante ed inevitabilmente escluso. 

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