04/06/08

Il Divo

Apparentemente lontano dalle corde del regista, Il Divo costituisce in verità un nuovo tassello del romanzo sociale messo in scena da Sorrentino, a cui aggiunge una nuova maschera al campionario di mostri e varia umanità da lui descritti, che trova nella figura del senatore a vita Andreotti un sorta di summa della sua percezione della realtà che ci circonda, dipingendolo con toni decisamente grotteschi e quasi caricaturali, appropriandosi della maschera emblematica dell'uomo politico ed elevandola a icona pop per antonomasia.
Sorrentino mette in scena tutta l'ambiguità e doppiezza luciferina del personaggio Andreotti, restituendocene un'immagine fedele all'immaginario complottista, cioè quella dell'Andreotti oscuro manovratore delle stragi e dei misteri d'Italia, come ci viene immediatamente proposto dal montaggio sincopato iniziale in cui inanella alcuni dei principali delitti eccellenti attribuitigli. Quella di Andreotti è una figura ambigua ed enigmatica, quasi sovrannaturale nel suo porsi come creatura per certi versi monastica nelle sue movenze e al tempo stesso vampiresca, come sottolineata in certe inquadrature e quasi immortale come ci rammenta la voce fuori campo del presidente raffigurato iconograficamente come uno dei "Supplizianti" di Hellraiser, afflitto dalle sue perenni emicranie, quale martirio eterno per colui che coltiva il potere per il potere.
Andreotti, nella mirabile interpretazione di Toni Servillo che lavora sulle sfumature e sulle movenze quasi meccaniche del personaggio, è individuo incapace di far trasparire emozioni o disagio come dimostra in un intenso momento d'intimità domestica da lui vissuto con distacco inquietante, contrappuntato da un'ipotetica confessione delle proprie malefatte.
Ancora una volta l'elemento grottesco frammisto a quello ipnagogico, in cui realtà e fantasia si confondono e si sovrappongono sottilmente, sprofondando così lo spettatore in un detour visivo inquietante perché fedele alla realtà sinora percepita intorno alla figura del senatore, fa capolino in un film registicamente notevole per la connotazione dello sguardo che deforma ed accentua gli spazi in cui si muovono i personaggi, rinchiusi in ambienti angusti anche quando questi sono rappresentati dalle ampie stanze del potere, grazie anche alla fotografia espressionista di Luca Bigazzi e da movimenti di macchina circolari che ci presentano come in un film western i comprimari della corrente andreottiana, individui di assai dubbia moralità.
Quello di Sorrentino parrebbe essere un coccodrillo per immagini, come se volesse raccontare una figura del nostro passato, ma in realtà ci dimostra come la nostra memoria sia soggetta a cancellare alcuni episodi o personaggi di contorno di una stagione politicamente e storicamente vicinissima, che viene cristallizzata abilmente dal nostro autore nel momento iniziale del presunto declino politico del senatore a vita, attraverso sequenze di notevole impatto visivo come l'intervista/requisitoria di Scalfari ad Andreotti, in cui gli sciorina tutti i potenziali delitti a lui riconducibili, per non parlare della strage di Capaci, che Sorrentino introduce con una sequenza quasi onirica nel momento dell'elezione del Presidente della Repubblica e che chiude citando Zabriskie Point, ma facendo compiere all'oggetto esploso una sorta di percorso inverso rispetto ai manufatti simbolo del consumismo fatti deflagrare da Antonioni.

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