Quello di Randy "The Ram" Robinson è il Ruolo di Mickey Rourke, l'incarnazione della sua caduta, del suo essere un uomo e un attore alla deriva in cerca di riscatto umano e professionale.
In fondo quella del lottatore è la sua storia, essendo stato anche pugile di discreto successo, in quanto il personaggio del wrestler costituisce un'adeguata metafora esistenziale e cialtrona di un mondo volutamente finto come quello del cinema e al tempo stesso crudo, violento e autolesionista, in cui lo spettacolo impone ruoli ben precisi e determinati, dove l'autoinflizione di ferite serve a rendere il tutto verosimile per il gusto dei fan stessi, consapevoli fruitori della finzione scenica cui sono sottoposti.
Mondo in cui vige una solidarietà cameratesca che Aronofsky rappresenta con realismo documentario, fotografando un'America periferica e provinciale in cui il campione decaduto ne è la summa fisica con le sue cicatrici estetiche ed interiori, quale simbolo di un periodo, quello degli anni '80 di apparente benessere, che a detta del protagonista stesso è stato rovinato dagli anni '90 e dal suicidio di Cobain, quale cantore della perdita delle illusioni, anni in cui Randy sente di voler ancora credere. E infatti, l'Ariete tenta di adattarsi ad una vita fuori dal ring, quale possibilità di rinascita a seguito dell'infarto, che lo costringe ad un ritiro dalle scene ormai periferiche cui si è relegato, sorta di Hulk Hogan squattrinato e fruitore del riflesso dei propri successi passati, ma Aronofsky, pur raccontando una vicenda non nuova, evita di cadere nel patetico e di offrirci esiti semplici per il suo lottatore, spesso inquadrato di spalle, come nell'incipit in cui lo pedina fuori dal ring senza mostrarcene il volto sfatto e facendocene percepire il senso di disfacimento fisico e morale, oppure nella sequenza in cui si avvicina progressivamente alla sua nuova postazione di lavoro, come se dovesse affrontare un nuovo incontro, ma questa volta con la vita reale e nel silenzio generale di una folla che non sa riconoscerlo per quello che é stato.
Significativo il parallelismo esistenziale con Cassidy (Marisa Tomei) spogliarellista anch'ella a rischio deriva fisica e morale agli occhi dei clienti del locale, ma non di Randy, la quale proverà, ma troppo tardi a convincere il decadente lottatore a non rischiare la propria vita, ma come dimostra il suo discorso finale prima dell'incontro anniversario con il suo avversario storico, che gli aveva donato una temporanea ed effimera fama e gloria, quello del Wrestling è il suo mondo e finché il suo pubblico, la sua vera e unica famiglia lo sosterrà, considerandolo non finito, lui non mollerà.
Aronofsky nel filmare il difficile incontro del nostro antieroe, sconfitto dalla vita e nel corpo, decide così giustamente di sospendere il tutto sul volo finale dell'albatross Randy "The Ram" Robinson, mentre il boato della folla ne acclama e accompagna la caduta in picchiata su un'esito incerto, ma di cui possiamo immaginare le conseguenze, il tutto incorniciato dalla voce e dalla splendida canzone di Bruce Springsteen, quale canto del cigno di un uomo vittima del proprio ruolo, un po' come è sempre stato Rourke nella sua vita.
In fondo quella del lottatore è la sua storia, essendo stato anche pugile di discreto successo, in quanto il personaggio del wrestler costituisce un'adeguata metafora esistenziale e cialtrona di un mondo volutamente finto come quello del cinema e al tempo stesso crudo, violento e autolesionista, in cui lo spettacolo impone ruoli ben precisi e determinati, dove l'autoinflizione di ferite serve a rendere il tutto verosimile per il gusto dei fan stessi, consapevoli fruitori della finzione scenica cui sono sottoposti.
Mondo in cui vige una solidarietà cameratesca che Aronofsky rappresenta con realismo documentario, fotografando un'America periferica e provinciale in cui il campione decaduto ne è la summa fisica con le sue cicatrici estetiche ed interiori, quale simbolo di un periodo, quello degli anni '80 di apparente benessere, che a detta del protagonista stesso è stato rovinato dagli anni '90 e dal suicidio di Cobain, quale cantore della perdita delle illusioni, anni in cui Randy sente di voler ancora credere. E infatti, l'Ariete tenta di adattarsi ad una vita fuori dal ring, quale possibilità di rinascita a seguito dell'infarto, che lo costringe ad un ritiro dalle scene ormai periferiche cui si è relegato, sorta di Hulk Hogan squattrinato e fruitore del riflesso dei propri successi passati, ma Aronofsky, pur raccontando una vicenda non nuova, evita di cadere nel patetico e di offrirci esiti semplici per il suo lottatore, spesso inquadrato di spalle, come nell'incipit in cui lo pedina fuori dal ring senza mostrarcene il volto sfatto e facendocene percepire il senso di disfacimento fisico e morale, oppure nella sequenza in cui si avvicina progressivamente alla sua nuova postazione di lavoro, come se dovesse affrontare un nuovo incontro, ma questa volta con la vita reale e nel silenzio generale di una folla che non sa riconoscerlo per quello che é stato.
Significativo il parallelismo esistenziale con Cassidy (Marisa Tomei) spogliarellista anch'ella a rischio deriva fisica e morale agli occhi dei clienti del locale, ma non di Randy, la quale proverà, ma troppo tardi a convincere il decadente lottatore a non rischiare la propria vita, ma come dimostra il suo discorso finale prima dell'incontro anniversario con il suo avversario storico, che gli aveva donato una temporanea ed effimera fama e gloria, quello del Wrestling è il suo mondo e finché il suo pubblico, la sua vera e unica famiglia lo sosterrà, considerandolo non finito, lui non mollerà.
Aronofsky nel filmare il difficile incontro del nostro antieroe, sconfitto dalla vita e nel corpo, decide così giustamente di sospendere il tutto sul volo finale dell'albatross Randy "The Ram" Robinson, mentre il boato della folla ne acclama e accompagna la caduta in picchiata su un'esito incerto, ma di cui possiamo immaginare le conseguenze, il tutto incorniciato dalla voce e dalla splendida canzone di Bruce Springsteen, quale canto del cigno di un uomo vittima del proprio ruolo, un po' come è sempre stato Rourke nella sua vita.
2 commenti:
La storia di Ram e quella personale di Rourke quasi si sovrappongono. A me ha colpito molto la frase che sembra paradossale "questo è l'unico posto dove riesco a non farmi troppo male". Aronofsky l'ho conosciuto in Requiem for a dream, e qui penso confermi la sua visione personale del cinema.
Ciao! impeccabile commento come sempre :)
grazie per l'apprezzamento e trovo che il discorso finale di Rourke nel film sia la summa di tutta la storia e della sua esistenza disadattata al di fuori di quel mondo di crudele finzione...
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