"Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo". In questa asserzione è racchiusa la filosofia di cui si fa portatore il protagonista, apprendendo a suo discapito il senso ultimo di tale locuzione, pensiero che pervade l’intero racconto, in cui la matrice noir lascia trasparire una visione grottesca degli eventi, sino alla rivelazione inattesa delle proprie colpe ataviche.
La Corea di Old Boy è luogo geografico inquadrabile attraverso segni iconici predefiniti e discreti che rimangono sullo sfondo di una storia che viene temporalmente collocata tra il 1988 e il 2003, anni in cui Oh Dae-su (Choi Min-sik) vive la sua condizione di prigioniero forzato, e la cui unica finestra su un mondo, di cui non ha più percezione alcuna, è la televisione della sua stanza-prigione, che restituisce un senso di apparente realtà ad una condizione dalle venature metafisiche. È attraverso questo percorso ascetico forzato, che il protagonista sviluppa la propria coscienza di sé, perdendo ogni connotazione buffonesca del suo carattere e smarrendo conseguentemente la cordialità insita semanticamente nel proprio nome. Oh Dae-su quale novello Montecristo si trova così a dover ricostruire il proprio passato, per scoprire in esso l’origine del peccato per cui è stato rinchiuso, innescando una spirale di violenza e vendetta, in cui persino l’amore viene inesorabilmente oppresso da un destino che lo segnerà nuovamente nell’anima.
Park Chan-wook elabora un universo lucidamente dispotico, dove i rapporti di forza dominano le azioni dei protagonisti, tesi ad una reciproca eliminazione, che se in Oh Dae-su è indotta dall’istinto e da un desiderio di cancellazione del proprio avversario, tanto da trasformare il proprio corpo, trasmutandolo in oggetto su cui tradurre lo scorrere temporale del proprio supplizio, in Lee Woo-jin (Yoo Ji-tae) appare mossa da un progetto più capillare, crudele, dove a prevalere è il gusto scopofilo del pedinamento del proprio nemico-cavia. Se Oh Dae-su è uomo viscerale, il quale impara ad amare e a lottare per i sentimenti in cui crede, ponendo alla base delle proprie azioni una detection, che lo porta a ripercorrere le tappe della propria carcerazione fino al suo lontano passato,scegliendo melvillianamente di affrontare la morte, Lee Woo-jin è la mente che muove le fila del racconto, giocando a carte scoperte, in quanto consapevole del potere economico ed intelletivo di cui gode, spargendo il percorso di Oh Dae-su di scatole cinesi, che lo porteranno a scoprire una realtà così scomoda da dover essere cancellata.
L’humour nero che attraversa tutto l’arco del racconto bilancia intelligentemente la rabbia e la violenza di un mondo, che costituisce solo una prigione più ampia di quella iniziale del protagonista, dove prevalgono traiettorie geometriche lineari e rigorose, tese al soffocamento dei suoi protagonisti, e che solo la m.d.p. pare riuscire a reinventare attraverso movimenti calibratissimi, in cui il piano sequenza lungo il corridoio della prigione diviene simulazione videoludica e metafora della lotta strenua e disperata del protagonista, verso la rivelazione ultima del suo supplizio. Park Chan-wook instilla così nella furia da lui messa in scena un senso etico dettato da leggi arcaiche, che rammostrano la sintesi ultima di ogni relazione sociale, dove ogni condotta comporta un effetto che si ripercuote sulle esistenze ruotanti intorno a Oh Dae-su, rendendolo un predestinato alla dannazione eterna e al pianto solingo.
La Corea di Old Boy è luogo geografico inquadrabile attraverso segni iconici predefiniti e discreti che rimangono sullo sfondo di una storia che viene temporalmente collocata tra il 1988 e il 2003, anni in cui Oh Dae-su (Choi Min-sik) vive la sua condizione di prigioniero forzato, e la cui unica finestra su un mondo, di cui non ha più percezione alcuna, è la televisione della sua stanza-prigione, che restituisce un senso di apparente realtà ad una condizione dalle venature metafisiche. È attraverso questo percorso ascetico forzato, che il protagonista sviluppa la propria coscienza di sé, perdendo ogni connotazione buffonesca del suo carattere e smarrendo conseguentemente la cordialità insita semanticamente nel proprio nome. Oh Dae-su quale novello Montecristo si trova così a dover ricostruire il proprio passato, per scoprire in esso l’origine del peccato per cui è stato rinchiuso, innescando una spirale di violenza e vendetta, in cui persino l’amore viene inesorabilmente oppresso da un destino che lo segnerà nuovamente nell’anima.
Park Chan-wook elabora un universo lucidamente dispotico, dove i rapporti di forza dominano le azioni dei protagonisti, tesi ad una reciproca eliminazione, che se in Oh Dae-su è indotta dall’istinto e da un desiderio di cancellazione del proprio avversario, tanto da trasformare il proprio corpo, trasmutandolo in oggetto su cui tradurre lo scorrere temporale del proprio supplizio, in Lee Woo-jin (Yoo Ji-tae) appare mossa da un progetto più capillare, crudele, dove a prevalere è il gusto scopofilo del pedinamento del proprio nemico-cavia. Se Oh Dae-su è uomo viscerale, il quale impara ad amare e a lottare per i sentimenti in cui crede, ponendo alla base delle proprie azioni una detection, che lo porta a ripercorrere le tappe della propria carcerazione fino al suo lontano passato,scegliendo melvillianamente di affrontare la morte, Lee Woo-jin è la mente che muove le fila del racconto, giocando a carte scoperte, in quanto consapevole del potere economico ed intelletivo di cui gode, spargendo il percorso di Oh Dae-su di scatole cinesi, che lo porteranno a scoprire una realtà così scomoda da dover essere cancellata.
L’humour nero che attraversa tutto l’arco del racconto bilancia intelligentemente la rabbia e la violenza di un mondo, che costituisce solo una prigione più ampia di quella iniziale del protagonista, dove prevalgono traiettorie geometriche lineari e rigorose, tese al soffocamento dei suoi protagonisti, e che solo la m.d.p. pare riuscire a reinventare attraverso movimenti calibratissimi, in cui il piano sequenza lungo il corridoio della prigione diviene simulazione videoludica e metafora della lotta strenua e disperata del protagonista, verso la rivelazione ultima del suo supplizio. Park Chan-wook instilla così nella furia da lui messa in scena un senso etico dettato da leggi arcaiche, che rammostrano la sintesi ultima di ogni relazione sociale, dove ogni condotta comporta un effetto che si ripercuote sulle esistenze ruotanti intorno a Oh Dae-su, rendendolo un predestinato alla dannazione eterna e al pianto solingo.
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