30/05/09

Maria Full of Grace

Vi è una forte ambivalenza iconografica e semantica in questo film premiato a Berlino, che sottende un sarcasmo stemperato dalla linearità e drammaticità del racconto. Joshua Marston, infatti, costruisce una storia esemplare che riassume tante esistenze similari, in cui evita il ricatto morale e sentimentale tipico di quel cinema-fotografia del terzo mondo e delle sue avversità innegabili. Si può attribuire alla narrazione il merito di un’asciuttezza misurata in cui il dramma e la tensione crescono sottilmente, coinvolgendo lo spettatore in un percorso formativo aperto su un futuro forse di speranza, che può risultare spiazzante, ma quale unica soluzione accettabile in una vicenda dai risvolti non sempre banali. Si avverte in ogni caso una meticolosità atta a rendere meno scontato possibile ogni retroscena esistenziale di Maria (Catalina Sandino Moreno), ragazza che, sin dalle prime inquadrature, manifesta una sana ribellione verso una monotonia, trasfigurata in assenza di futuro per una donna, consapevole delle proprie forze e del proprio bisogno di emergere dal contesto locale ed umano di appartenenza. Diviene subito così comprensibile il bisogno per la nostra eroina di rifuggire un uomo, incapace di amarla ed imbevuto di principi che appaiono quale segno di un’evidente immaturità a confronto della fermezza e lucidità di Maria, che manifesta costantemente, seppur la scelta di divenire corriere della droga, pare dettata più dall’ambigua fascinazione subita da colui che la introdurrà a questo mondo crudele la cui maschera di gentilezza è incarnata perfettamente dal narcotrafficante generoso e affettato, che non semplicemente da una necessità economica, per quanto indiscutibile.
Maria intraprende così una strada che vede coinvolte anche altre esistenze ben più fragili della sua e come la Santa dell’iconografia religiosa, essa diviene portatrice di un duplice fardello, uno lieto ma non voluto, l’altro letale, ma consapevolmente conservato e assunto, come ben dimostra la locandina di cui sopra. Il suo è un percorso periglioso in grado di condurla in quella terra della speranza, che pare rappresentare il luogo ideale per le proprie aspirazioni di fuga, in cui prenderà consapevolezza della propria esistenza e saprà forse scegliere il suo destino.
Marston imbastisce un universo femminile immerso in un dramma costante, che non è mai ricattatorio e ammiccante, in cerca di un sostegno in chi assiste al suo lento disfacimento, per colpa di uomini spesso inadeguati, egoisti o fasulli, dove è proprio una donna a divenire il referente morale e sociale per le protagoniste del film. Le figure maschili sono una semplice appendice di completamento, anche attraverso la loro presenza solo evocata (il padre di Maria), delle personalità femminili qui rappresentate, figure in bilico costante su un abisso di povertà tangibile, evidenziata da dettagli esplicativi, che devono anche lottare contro la loro grettezza umana, ma Marston evita di la categoricità, affidando anche ad alcuni uomini un ruolo paterno, capace di indicare a Maria il proprio dovere morale ed umano.
Il regista fotografa una realtà plausibile nella sua drammaticità con un’asciuttezza documentaristica che trova nella personalità di Maria il fulcro principale di un racconto di vite senza speranza, in cui solo una forse si salverà grazie alla propria determinatezza, o più semplicemente per un fortunato accidente, che la renderà forse più consapevole e responsabile, ma che getta pesanti ombre su tutte quelle altre esistenze senza futuro, che varcano i confini di un paese cui affidare le proprie speranze di sopravvivenza.

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