07/06/09

"Buongiorno, notte"

“Buongiorno, notte”, antitesi che prelude alla duplice visione sognante del regista e della protagonista Maya Sansa, non più La Balia da lei interpretata in precedenza per Bellocchio, come ci dimostra nella sequenza in cui si manifesta impacciata nell’accudire un neonato, affidatole da una vicina di casa, ma una terrorista attraverso i cui occhi rivive l’incubo di una generazione. Rivisitazione personale e ardita di una vicenda di cronaca, recentemente riproposta nella sua ennesima versione cinematografica della “teoria del complotto”, che dimostra il coraggio di un autore non interessato alla reiterazione pedissequa degli eventi storici, tipica del film d’inchiesta, le cui insidie sono molteplici ed i risultati raramente efficaci, ma una lettura per certi versi psicanalitica, e allegorica della nostra società e dei sensi di colpa che vi sedimentano. Il cinema di Bellocchio si dimostra strumento necessario di riflessione non solo critica, ma anche sociale; il suo è un cinema poco conciliante e per questo indispensabile per la sua capacità di suscitare fremiti di coscienza.
All’autore non interessa ricostruire fedelmente la storia del rapimento Moro, i riferimenti all’attualità ci sono solo dati dalle televisioni e dai giornali, quali immagini di repertorio, che s’insinuano tra gli anfratti della storia, mentre sequenze come la seduta spiritica e la corte papale provengono direttamente da L’ora di religione, immagini sature d’ironia e lucidità descrittiva nel ricostruire l’atmosfera di un’epoca e della sua “aristocrazia”. Il regista compare in una delle due sequenze come presenza fantasmatica, assente, distratta, come lo spirito invocato, che interrogato sul luogo di prigionia dello statista, risponde beffardamente: La Luna. Un richiamo al film di Bertolucci, successivo al rapimento Moro, che lo lega a filo doppio al qui presente “Buongiorno, notte”, con il suo ultimo lavoro proiettato alla mostra di Venezia: The Dreamers. Da una parte i sognatori delle proteste di piazza sessantottine, dall’altra un incubo che parla della perdita dei sogni.
I brigatisti, infatti, paiono sospesi in un limbo spaziale, prigionieri loro stessi della segregazione imposta allo statista, quasi privi di un nome, un’identità. Solo Chiara pare avere la possibilità di condurre una vita all’esterno, condizionata anch’essa dal suo ruolo politico e per questo soggetta ad una schizofrenia esistenziale opprimente, come le stanze del Ministero presso cui lavora. Ambienti chiusi, saturi di tensione palpabile e di alienazione, dove persino le attenzioni di un giovane collega di lavoro, paiono convincerla progressivamente del proprio errore, della propria estraneità al resto del mondo e all’affetto che i suoi zii le offrono costantemente, al punto tale che presunta realtà e sogno si complicano ulteriormente. Diviene così possibile vagheggiare la scarcerazione di Aldo Moro e di osservarlo libero di passeggiare sotto una pioggerella leggera all’alba, in una Roma periferica e solitaria.
Duplice finale per un doppio sogno, che avremmo voluto si avverasse. È la Storia, infatti, a smentirci e a ricordarci che tutto questo non è possibile, attraverso le immagini della cronaca televisiva. Il regista consapevolmente umanizza le emozioni, i pensieri, gli slogan propagandistici dei brigatisti, per farne affiorare l’inconscio e quindi amplificarlo attraverso gli sguardi e le soggettive di Chiara, volta a spiare con apprensione i movimenti del prigioniero, tanto da manifestare una “Sindrome di Stoccolma” alla rovescia.
Bellocchio rischia però nella sua libera interpretazione qualche caduta di tono, proprio nei momenti in cui la musica dei Pink Floyd (The Great Gig in The Sky) diviene totale, unendo in un’ideale comunanza di spiriti, la lettera di commiato di Moro alla moglie e quella tratta dal volume “Lettere di condannati a morte della resistenza europea”. Fa forse qui capolino un accenno di retorica e di dichiarazione politica, ma inevitabile non pensare al richiamo del libro, letto dal padre alla figlia Chiara ogni sera, come ad un’ulteriore identificazione dell’anziano prigioniero, col genitore della brigatista.
Cinema dunque, dei padri e sulla paternità negata e anelata: il regista dedica il film a suo padre, il capo dei brigatisti afferma di avere un figlio, ma di non averlo più voluto incontrare e Chiara è orfana di entrambi i genitori. Lo statista diviene così il capostipite di una famiglia peculiare ed il libro di Marx ed Engels (La sacra famiglia), conservato sul comodino dalla protagonista, ne è la notazione sarcastica ed allegorica. Evidente chiave di lettura di quest’incubo ad occhi aperti, in cui uno dei carcerieri dichiara addirittura di aver smesso di sognare, ma non Chiara, che dalle visioni della Russia rivoluzionaria, passa a quelle di Aldo Moro libero di osservarla e di sfogliare i suoi libri. Egli è il padre tanto agognato dalla protagonista, che sente di voler liberare, ma solo nel sogno del regista ciò diviene possibile, per pochi minuti ancora, e poi: Buongiorno, notte.

2 commenti:

Ukiyoe ha detto...

Apprezzo molto questo film... Complimenti per l'analisi psicologica che ne hai dato, semplice e profonda.

Pereira ha detto...

è una recensione che ho recuperato dal passato come altre che progressivamente inserirò in questo blog...
analisi da non esperto, dettata dalle impressioni ed emozioni che un film riesce a trasmettermi e questo film di Bellocchio me ne aveva date molte, forse più di quest'ultimo, che nonostante la sua bellezza formale mi ha creato un certo fastidio irrisolto...