02/08/09

Eros

La realizzazione di un film diviso in episodi appare come evento estemporaneo, legato inevitabilmente ad una tradizione passata del nostro cinema, in cui uno o più registi si cimentavano nello sviluppo di un tema conduttore, declinato sotto vari aspetti e sfumature. Eros avrebbe dovuto offrire una rinnovata occasione per Michelangelo Antonioni per mettersi nuovamente dietro la m.d.p. e dare sfoggio della sua arte e del suo sguardo sensibile e profondo sul tema dell’amore e delle sue avversità, incomprensioni e drammi psicologici. Da qui l’idea di affiancargli altri due “maestri” del cinema di questi ultimi anni, con un esito, che in questo caso porta a far pendere la bilancia nettamente nei confronti del regista hongkongonese, che dimostra di saper arrivare laddove lo sguardo dell’autore italiano sembra non accedervi più, mentre Soderbergh si diverte a sollazzarsi con immagini e referenti di un immaginario psicanalitico di pura facciata.
Nel caso del regista ferrarese, si assiste ad un imbarazzo narrativo che sfocia in un impiego di dialoghi che soffrono di un calligrafismo nocivo ad uno sguardo, di per se ormai lezioso e tendenzialmente voyeuristico, in cui le inquadrature e i raccordi che ne costituiscono l’intelaiatura, non sembrano riuscire a reggere il peso di un racconto che per quanto comprensibile ed intuibile non riesce a convincere chi vi assiste.
Soderbergh nel suo episodio, si diverte a giocare e ribaltare i piani narrativi, realizzando una sorta di mise en abime del racconto, in cui tutto diviene autoreferenziale e concluso in se stesso, ma con una sufficiente ironia trasmessa dalla presenza di Robert Downey Jr., il cui apparire in scena ci introduce in un’atmosfera ingannevolmente noir, mentre le immagini da sogno prodotte dalla sua mente rammentano visivamente la “camera azzurra” simenoniana. Colori saturi che si contrappongono ad un grigiore ricalcante le atmosfere e le emozioni di un genere cinematografico, già a suo modo omaggiato-ricalcato dai Coen. Il tutto immerso in una seduta d’analisi in cui gli sguardi sono rivolti verso oggetti di desiderio invisibili o apparentemente irreali, che spingono la curiosità dello spettatore verso direzioni e traiettorie che non si sa dove conducano. Il suo episodio dovrebbe organizzare un equilibrio interno al prodotto-film, ma risulta un po’ lezioso per quanto divertente, in quanto si intravede sempre uno sguardo abbastanza superficiale, incapace di andare veramente a fondo delle maschere attoriali da lui impiegate.
L’ultimo episodio costituisce la degna chiusura di un’opera che cresce di frammento in frammento, raggiungendo qui il suo apice erotico e romantico insieme. Quelle di Wong Kar-wai sono storie di fedeltà e devozione che si mantengono nel tempo, a dispetto di ogni avversità e convenzione sociale sfavorevole a simili sentimenti e specificamente nei confronti dell’amore. Nei suoi personaggi maschili pare riconoscersi un’idea di amore assoluto, devozionale, che trascende ogni idea di rancore o odio verso l’oggetto amato. L’amore è un gesto tattile, sensibile, erotico, impresso nella nostra carne e nella nostra memoria, agognato nel tempo, fino alla dissoluzione dell’esistenza dell’amato o dell’amante.
Il regista riesce a ricostruire le emozioni e le sensazioni del suo venerato In The Mood For Love, dove sono gli spazi angusti, i gesti, gli sguardi e il non detto, a determinare un universo di sentimenti che ruotano intorno ad esistenze inevitabilmente separate e condannate, ma i cui gesti di puro erotismo si elevano ad atti d’amore assoluto, densi di un romanticismo difficilmente rintracciabile nel cinema odierno.

Nessun commento: