29/04/10

Cella 211

Il genere carcerario solitamente è pertinenza del cinema americano, che l'ha saputo declinare sotto varie sfumature, rendendolo uno specchio morale e sociale affascinante e conturbante, tant'è che Cella 211 sfrutta a piene mani il genere per introdurre un discorso che se da una parte è ben localizzato dal punto di vista politico, dall'altra diviene in ogni caso discorso universale sul potere e sulla meschinità umana.
Monzon sa sfruttare bene l'idea di introdurre un futuro secondino all'interno della cella in questione, vittima inconsapevole di una rivolta, e costringerlo a fingersi carcerato per necessità di sopravvivenza, tant'è che saprà scoprire aspetti della propria natura inaspettati, in cui il fascino del carismatico Malamadre (nomen omen) diverrà stimolo e spunto per una crescita e un percorso umano, con inevitabili conseguenze drammatiche.
Il regista opera anche un discorso metacinematografico e geografico del luogo "carcere" in cui la visione panottica viene celata, oscurata, dagli stessi carcerati che scelgono e optano essi stessi per ciò che deve essere visto dai loro carcerieri, in un crescendo di tensione e sospetti che portano la situazione sempre più in bilico e in cui i mezzi di informazione rappresentano il megafono esibito di una violenza, che non è solo interna, ma anche al di fuori delle mura.
Discorso apparentemente facile e semplicistico, che però riesce ad essere sfruttato adeguatamente, attraverso una crudezza di immagini e contenuti che restituiscono in maniera veritiera gli aspetti deteriori della vita carceraria e di coloro che la popolano.
Uno dei film più interessanti visti ultimamente e che merita di essere rivisto e studiato, con gli eventuali limiti che in esso vi si possano riscontrare, ma una dimostrazione di come vi sia un cinema europeo in grado di raccontare con realismo problematiche politiche e sociali, sapendo sfruttare elementi tipici di un genere in maniera non così apparentemente banale e semplicistica.

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