02/03/11

Biutiful

Iñárritu post Arriaga, così si potrebbe inquadrare quest'ultima opera del regista messicano senza il suo sceneggiatore di fiducia, anch'esso passato alla regia, che mette in atto un tentativo di cinema meno costruito e articolato di altre sue precedenti opere, alla ricerca di una linearità che non disdegna comunque una sua geometria, per quanto semplice che è quella del cerchio, con i pregi e difetti che essa racchiude nonostante l'idea di perfezione intrinseca di tale forma.
Il regista scava nel dolore del suo protagonista e di una città vista dai suoi margini, dalle sue periferie, cinema rischioso quello che si addentra in tali meandri, che potrebbe incappare nell'immagine da cartolina dall'inferno e forse così potrebbe sembrare per certi versi, anche se Bardem è attore efficace, volto che sa portare su di sé i segni del dolore e della sofferenza, figura dolente destinata a vagare apparentemente senza meta in una Barcellona quasi irriconoscibile.
Pare rinunciare come si diceva a certi giochi di montaggio come in altre sue opere precedenti, ma mantiene comunque il suo stile attento nel descrivere storie parallele destinate ad incrociarsi, che qui evidenziano subito la loro codipendenza e il loro legame specifico, senza giochi o scherzi del destino, tentando di rappresentare la vita nella sua fluidità e nei suoi incroci e connessioni umane, seppur un certo simbolismo, una certa propensione di sguardo verso la morte sia inevitabile e onnipresente nel suo cinema.
Film che disturba e che ferisce, che tende all'accumulazione di elementi, di fattori, di storie e di dolori, che questa volta sembrano trovare un catalizzatore unico nel protagonista Bardem, un fantasma vivente cosciente del proprio destino e incapace di accettarlo per il senso di amore paterno che lo lega ai suoi cari.
Inàrritu non esita quindi a rappresentarci e raccontarci tutto questo, non si nasconde, nonostante certi formalismi più o meno apprezzabili, ma che denotano forse un compiacimento che c'è sempre stato nel suo cinema allora più di adesso, ma comunque presente e che andrebbe levigato o prosciugato come la storia stessa, che tende ad eccedere e debordare in una lunghezza funzionale forse all'autore ad esprimere il dolore dei suoi protagonisti e a costringere lo spettatore a confrontarsi con esso, ma quanto consapevolmente?
I vezzi autoriali sono trappole di senso che sembrano difficili da eliminare e che possono costituire un limite del suo cinema, seppur apparentemente accantonati insieme al suo ex sceneggiatore Arriaga, ma che fanno ancora capolino nel suo stile di regia e di narrazione e allora si dovrà capire se dopo quest'opera Inàrritu saprà dirci qualcosa di più con maggiore icasticità, anche senza un attore debordante, ma in senso positivo per l'attore stesso, come Bardem.

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