05/12/11

Bronson

A seguito della felice e inaspettata scoperta dell'ultimo lavoro di Nicolas Winding Refn, la visione del precedente Bronson si è posta come necessaria per conoscere e valutare ulteriormente le capacità di questo apprezzato talento registico.
Bronson è un anomalo film biografico sulla storia del detenuto Michael Peterson (Tom Hardy) corpo cinematografico ingombrante con cui dover fare i conti sin dalle prime iperrealiste sequenze, che fanno emergere un gusto estetico vibrante di colori e di emozioni.
La scelta narrativa di scomposizione temporale e ambientale della vicenda del galeotto più famoso d'Inghilterra rappresenta un metodo di lavoro e di rappresentazione volutamente straniante, che ci propone una personalità debordante e imprevedibile, capace di fondare sul proprio istinto di violenza una forma di talento deviato da proporre e riproporre quale segno di riconoscimento e di fama dentro e fuori dal carcere, divenendo una forma di comunicazione e approccio per lui stesso innegabili.
Refn alterna i momenti carcerari e quelli di libertà con monologhi diretti in macchina da parte del nostro protagonista ad altri momenti teatrali, quasi burleschi, di fronte ad una platea oscura, che rammentano la performance umiliante del nostro beniamino Alex (Malcom McDowell) in Arancia Meccanica, seppur il gioco di finzione e alienazione narrativa sia più evidente, quale declinazione ulteriore della personalità multiforme del nostro attuale beniamino.
Peterson/Bronson è e sarebbe ben altro e più di un semplice corpo macchina da combattimento, come dimostrano le sue riflessioni e il suo trasformismo su un palcoscenico idealizzato, quale proiezione del suo desiderio di notorietà ed attenzione celebrativa, tant'è che scoprirà anche un gusto per le arti visive che potrebbe costituire una via di fuga espressiva e altrettanto fruttifera per un riconoscimento del proprio ego, che viene frustrato inevitabilmente sino all'esplosione finale della propria violenza intima.
Bronson non è un eroe positivo, ma Refn ci restituisce un personaggio burlesco, senza per questo giustificarne o condividerne la violenza, nonostante la rappresentazione straniante possa dare adito a questa ipotesi. In realtà la narrazione scelta dal regista, accompagnata da una fotografia vivace in alcuni momenti decisamente espressionisti e da una musica che denota un approccio verso l'elettro-pop di sapore anni '80, ci disvela tutta la solitudine e l'instabilità di questo individuo concentrato su se stesso e alla fine ridotto ad una carcerazione, che sembra quasi relegarne e comprimerne la fisicità, impedendone e limitandone ogni autoesaltazione così tanto sbandierata ed esaltata dallo stesso sin dagli esordi.

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